Mi chiedo se noi italiani abbiamo tanta saggezza da resistere all’impulso di correre avanti e bruciare le tappe. Come in ogni cosa ci vuole tempo, ma purtroppo siamo diventati tutti impazienti, non sappiamo più aspettare, non sappiamo più rispettare i ritmi della natura, del tempo, del nostro corpo.
Sembra che chi ottiene prima degli altri qualcosa siam da considerarsi più bravo, più intelligente, più furbo, approfittarsi degli spazi insinuarsi negli interstizi, fregare l’altro perché si è stati più svelti ad occupare un posto. Ottenere cosa si desidera prima degli altri, sia esso un oggetto o un favore.
Io in questa pandemia, che sta dentro e fuori di me, sto cercando di fare esercizio di pazienza.
È inutile affrettarsi, affannarsi, diventare ansiosi se non si ha immediatamente quello che si vuole, all’ospedale ho imparato a sedermi ed aspettare, il mio turno arriva, arriva sempre. C’è un tizio che ha la mia stessa malattia a che quindi vedo spesso che non fa che girare, alzarsi, borbottare al telefono, sbraitare al telefono, cambiare sedia, come se quella in cui sta seduto scottasse, sbircia dietro la porta chiusa, ferma le infermiere, esce e poi rientra, e anche quando è seduto sulla poltrona trova il modo di infastidire gli altri.
Oggi, era in radioterapia mentre io aspettavo la visita di controllo e gli ho chiesto: “come va?”. Mi ha fatto un discorso confuso e quasi delirante. Ma se sapevo che era così doloroso non so se avrei fatto questo percorso, e poi guarirò? Ne vale la pena? e se non guarisco? Mi basta guarire l’80 per cento, ma subito, poi vado ancora un po avanti e poi, poi… poi… Muori?
Lo guardavo allibita, già pentita da avergli fatta una semplice domanda di cortesia, Meno male che mi hanno chiamata alla visita.
Ma torniamo alla pazienza e a quella che dovremo mettere in campo noi italiani. Ne dovremo avere… tanta, perché tutto no finisce subito, i ristoranti non riapriranno, e se apriranno chi va più a mangiare al ristorante? O in pizzeria quando rivedremo la tavolate di ragazzi che scherzano tra loro, o quando vedremo le comitive di turisti gli uni appiccicati agli altri per metterne di più in una stanza? Forse io sceglierei un ristorante grande e silenzioso con una buona carta, menù, col cibo cucinato bene, quello che non posso avere a casa mia, allora sì che spenderei di più per mangiare fuori, a quanti saranno questi ristoranti? E come i ristoranti tutto il resto.
Oggi conversando con il mio chaffeur personale a un certo punto mi ha chiesto: Ma lei si annoia? No, non mi annoio, mi piace stare da sola, mi è sempre piaciuto, la mia casa è il mio rifugio, oggi più che mai. Ricordo che in tempi non sospetti face propositi agostani di chiudermi in casa, abbassare le serrande e fare finta di non esserci per nessuno. Poi magari uscire la sera per andare al cinema Grotta e sedermi a uno dei tavolini laterali. Mi sono sempre piaciuti i tavoli a lato della platea che distanziano anche fisicamente il pubblico.
No non mi annoio, so aspettare, anche se poi quando è ora di decidere mi muovo e agisco.
Mi hanno accusata spesso di essere impulsiva, di agire per istinto, si è vero, ma il mio agire, non era impulso era qualche cosa che arrivava dopo una scintilla dovuta a lunghi sfregamenti.
Solo due volte -anzi tre- ho agito nel giro di pochi secondi|minuti. La prima è così distante nel tempo che non ne vale quasi più la pena parlarne, la seconda quando ho deciso di iscrivermi alla Libera Università dell’Autobiografia. Ricordo che sono balzata sul divano e ho preso in mano il telefono nel giro di pochissimo tempo. La terza quando ho deciso di iscrivermi all’università. Era l’ultimo giorno di iscrizioni e uscire e prendere il treno per Pisa è stato tutt’uno.
Adesso, non è più tempo di colpi di testa, Sono diventata più grande, eufemismo per dire più vecchia, anche se il tempo cala sempre davanti a me, voglio godermelo, con pazienza. Sono fortunata, sto bene, sto affrontando la malattia con tutte le mie forze, con il conforto di persone vicine che mi vogliono bene -o almeno così spero-. Che poi, in fondo, basta crederci e prendere quello che viene, quello che le persone che stanno introno -oggi distanti, ma prima vicine- possono darmi. Accogliere, ascoltare, fare tesoro delle piccole cose che si osservano solo avendo pazienza.
Vedo qui di fronte a me la mia gatta, che dorme, acciambellata sul mio letto, sta aspettando che la raggiunga, per giocare un po’ e poi addormentarci insieme, il suo tepore appoggiato alla mia gamba, la piccola testa appoggiata alla mia mano. So che devo imparare anche da lei, come da chi sta soffrendo più di me, perché io sono una malata-sana, che deve solo pazientare un po’ e poi potrà come tutti gli italiani tornare al cinema d’agosto, al fresco del giardino, alla passeggiata con telefonino al seguito per scattare foto, al cibo buono, alla frutta saporita, alla pelle guarita e alla sconfitta del male. Pazienza, diceva mia sorella, lei non ce l’ha fatta, ma io ce la farò.