Intervento di Pina Angela De Vincenti durante la presentazione del libro il 5 giugno 2018

Leggo il libro durante un lungo viaggio in autobus che mi conduce da Firenze a Mirto-Crosia, il mio paese dove sono nata. Scorrono notte, strada e parole, che creano in me la suggestione di vivere più viaggi nello stesso momento, partendo dai racconti a ritroso delle protagoniste del libro. È un libro che profuma di speranza già dalla dedica. “dedicato a chi, ancora oggi, si impegna a cambiare il mondo”.
L’età dell’oro è un libro scritto oggi, in un contesto molto diverso da quello che hanno vissuto le sue protagoniste: è un tempo, il nostro, in cui i sentimenti prevalenti sono quelli della provvisorietà, dell’instabilità e dell’inquietudine che non lascia intravedere segnali buoni di futuro. Le pagine del libro raccontano le storie di nove donne che hanno deciso di scoprirsi al di là dei loro rispettivi ruoli all’interno della Cgil e della società.
Ho provato a immaginarle come voci fuori dalla scena, in un teatro che, invece, di volta in volta cambiava scene e paesi, fino a farci vivere una Firenze che iniziava il confronto con una nuova fase storica, popolata dalle facce di genitori, figli, colleghi, avversari politici, amicizie e tanto altro. Sullo sfondo, le varie lotte per la conquista di diritti civili, sociali e di cittadinanza, marce per la pace e manifestazioni per i diritti del lavoro. È a quegli anni che dobbiamo buona parte dei diritti di cui, ancora oggi, godiamo sui posti di lavoro, nonostante i maldestri tentativi quotidiani di sottrarceli. Finalmente anche le donne possono esercitare la possibilità di esprimere il loro voto alle elezioni politiche e vantare il diritto di poter avere un lavoro, anche se nei luoghi di lavoro vengono relegate alle mansioni meno importanti, spesso tenute in silenzio in un angolo. Non manca il lavoro, mancano i diritti. Anche quelli che a noi sembrano scontati come la possibilità di spostarsi dalla postazione di lavoro per raggiungere i servizi igienici. Chiaramente mi ha entusiasmata molto il modo in cui le protagoniste si sono avvicinate al mondo del sindacato, mosse dall’istinto di contrastare le ingiustizie, dal desiderio di libertà e dal sogno, e la promessa, di essere protagoniste del mondo.
Ad un certo punto il libro si fa carne e sangue. Le donne decidono di spostare ricordi e attenzioni sui loro percorsi familiari: l’albero genealogico, di uomini e donne, che ci forma e ci plasma anche quando non lo vogliamo. La crescita personale passa spesso attraverso il rifiuto dei canoni personali e nel terzo incontro le donne scelgono di identificarsi con una figura a noi molto familiare, quella della matrioska. La bambola che contiene dentro di se, altre bambole più piccole: la nonna, la madre, la figlia, la nuora, la nipote. E il racconto passa dalle mani e i pensieri delle donne che filano il DNA a quelle che cercano di spezzare il cordone ombelicale, attraversate dal desiderio di non assomigliare alle proprie madri che spesso sono taciturne e severe, assolutamente incapaci -a causa della loro formazione sentimentale- di esprimere apertamente i loro sentimenti. Nelle varie storie del libro ritrovo un po’ anche la mia.
Sono fisicamente identica a mia madre, tanto che le persone mi riconoscono per strada perché somiglio molto a lei, e sono cresciuta sulle ginocchia delle mie nonne. Ho avuto anche la fortuna di conoscere i miei bisnonni paterni, ed è stata comunque tutta la famiglia di mia madre ad occuparsi di me nei primi anni di vita. Era una famiglia di agricoltori e di coltivatori diretti, che alternava una vita molto modesta a regole comportamentali rigide e strimpellate di chitarra serali. Nasco il 19 marzo da una madre che ha lavorato per trentacinque anni nei campi e un padre, solo inizialmente, non molto cosciente del suo ruolo – le cose cambieranno radicalmente negli anni fino a creare un rapporto molto forte e intenso con lui-.
Mamma tornava a casa con la pelle bruciata dal sole, l’odore dei campi impregnato nel naso e una stanchezza atavica, pesante che non le consentiva di stare sveglia più di cinque ore al giorno. Ho sofferto molto la sua mancanza e, nonostante lei provasse a fare del suo meglio, lo spazio tra me e lei diventava sempre più ampio tanto che, da adolescente, decisi di mettere in un angolo il mio desiderio di protezione, – l’obiettivo giornaliero di provarle tutte per attirare le sue attenzioni – abbandonando tutti i riti e piccole consuetudini che erano solo nostri. Ero diventata grande, stavo crescendo e mamma, forse, era una donna come le altre che faceva una strada che non coincideva con la mia. Ero ancora troppo giovane per capire.
La mia famiglia paterna, invece, è una famiglia matriarcale, gestita con non poche difficoltà da una donna rimasta vedova troppo presto, madre di dieci figli e mai amata abbastanza. Nei momenti delicati – ce ne sono stati tanti – il suo motto era “apparecchiate la tavola” e, con l’aiuto di un esercito, di una armata di nuore, nel giro di due ore metteva a sedere trentadue persone, tra figlie e nipoti di primo grado. Questa famiglia grande e complicata mi ha fornito tutti gli strumenti necessari per stare al mondo, in un rapporto basato sul confronto, i veti, lo scontro e anche l’accettazione. È lì che ho imparato che non siamo tutti uguali ma che il rispetto deve essere uguale per tutti.
Io e nonna Maria avevamo un rapporto molto conflittuale, lei non accettava che nessuno la contraddicesse e io non ho mai accettato che l’amore si potesse “erogare a quote” e che a qualcuno ne spettasse più che ad altri. La monitoravo a vista ed ero sempre lì a sottolineare le differenze di peso e di misura. Lei, ovviamente, negava. Questi momenti erano alternati a un gioco che facevamo solo noi: davanti al camino le chiedevo di raccontarmi la storia della famiglia di mio nonno, che a sua volta era complicata e piena di colpi di scena. Le facevo le stesse domande a distanza di qualche mese e lei, che ripartiva, ogni volta, pazientemente d’accapo, narrava sempre una storia diversa. Alcune donne impari ad amarle davvero tardi, spesso quando non ci sono più. Nonna è andata via nel maggio del 2003 e nonostante siano passati quasi quindici anni, ogni volta che torno a casa, passando dalla sua porta, spero di vederla spuntare da lì, come faceva ogni volta che rientravo da scuola.
Nonna Angela è Angela come me. Una donna ribelle, senza padroni, libera come l’aria e da sempre poco compresa. È affetta da “attimi di dimenticanza”, ma non molla. È una roccia.
Sono stata la prima delle nipoti a scegliere e ottenere di allontanarmi da casa a diciannove anni, dopo un fintissimo sciopero della fame estivo – mangiavo solo quando non mi vedeva nessuno – e di decidere di mantenermi economicamente da sola, in una città lontana, nella disapprovazione generale di tutti, compresi gli zii che successivamente hanno visto partire le loro figlie, attribuendo a me la colpa delle loro scelte.
Arrivo a Firenze il 19 ottobre del duemila. Il venticinque dello stesso mese lavoravo in un bar. Cresci cercando di scappare da casa, di rinnegare le origini, la tua storia, spesso anche la tua appartenenza familiare. Diventi grande quando accetti che loro sono un po’ te e tu sei un po’ loro e che con l’amore è meglio farci la pace che la guerra.
Sono figlia e nipote, non sono ancora mamma anche se mi piacerebbe diventarlo. Mi piacerebbe avere due bambine, e vederle crescere sane, felici e combattenti, e crescere insieme a loro e aiutarle e sostenerle nel lungo percorso della vita.
Ho incontrato tante donne nel periodo fiorentino: donne forti e orgogliose che non arretrano di un passo, alternate che vivono soggiogate dal giudizio maschile, dal desiderio di sentirsi amate e apprezzate dagli uomini. Ho imparato che alcune donne si riconoscono da sole, istintivamente, spesso anche senza parlarsi. Sono quelle che fanno parte della mia “famiglia di donne”, ne ho inventata una tutta mia, una famiglia speciale.
Nel ringraziarvi per questo libro emozionante, umano e formativo, concludo con un brano del libro e una citazione.
“L’immagine di infinite matrioska mi viene davanti agli occhi. Una bambola dentro l’altra: io dentro mia madre, poi dentro mia nonna, poi la mia bisnonna e così via. Ada, Arianna, Ilde, Erminia e poi? Ho perso il ricordo delle mie antenate come una fuga di specchi, in cui l’ultima immagine è assolutamente indistinguibile. E tu? Piccolo o piccola mia sarai l’ultimo anello di una catena iniziata non so dove e che finirà non so quando. Spazio nascosto, spazio segreto, spazio percorso da una corrente di desiderio. Spazio che mi separa da ciò che desidero ma che allo stesso tempo mi consente di raggiungerlo. Attendo il compimento di ciò che la natura ha preparato per me, attendo con la mano abbandonata sul ventre che la creatura bussi per venire al mondo. Uscire da me per farsi altro, conseguenza di qualcosa che ha preceduto il suo esistere: passione, gesto, atto d’amore. Chiunque sia, lui o lei, si farà legame per entrare in una rete di reciprocità, di relazioni di appartenenza e di dipendenza”.
Un proverbio indiano invece narra che: “Una mamma che educa un bambino educa un uomo; una mamma che educa una bambina, educa un popolo”.
L’augurio che mi sento di esprimere è quello di farci ancora uomini e popolo. È importante oggi, quanto ieri. Non possiamo sottrarci da questa acuta richiesta del mondo. Uomini e popolo. La storia insegna che non c’è bisogno di molto altro per cambiare le cose per sempre e noi, non possiamo perdere questa occasione.
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