
Nonostante la scrittura sapiente e scorrevole non riuscivo a terminare di leggere “Il filo infinito” come se il titolo del libro fosse anche attaccato alla mia facoltà di lettrice e non riuscisse mai a trovare il bandolo della matassa.
Il filo infinito è un reportage di viaggio, uno dei tanti che ha fatto Paolo Rumiz, dove si percepisce il cammino del pellegrino alla ricerca di una meta sia esterna che interna. Ogni capitolo è un luogo, ma non un luogo qualunque, ogni capitolo è un monastero benedettino che punteggia una carta d’Europa, lasciando tracce che ogni volta sono diverse seppur uguali a se stesse.
Ecco, apparentemente diverse, perché la ripetitività delle mura, degli orti, degli incontri è sempre la stessa. Seguire la regola di San Benedetto non lascia molti spazi, “Ora et labora” è il motto di ogni uomo che decide di prendere i voti monastici e dedicarsi non solo alla cura delle anime, ma anche alla cura del territorio. Non per niente a volte i monasteri sono diventati vere e proprie fortezze e imprese economiche che procurano sostentamento e profitti.
Non so come è nato questo libro, se è stato assemblato dopo averlo pubblicato a puntate da qualche parte, o se è nato nella forma i cui l’ho letto, quello che io ho percepito è una ripetitività che se letta a distanza di una settimana potrebbe essere piacevole, letta senza soluzione, risulta stucca!
Eppure, come ho detto, la prosa di Rumiz è piacevole e accattivante, si percepisce il coinvolgimento della persona Rumiz e non solo del giornalista Rumiz, ma non mi ha conquistato, e anzi ho fatto molta fatica ad arrivare alla fine. Ci sono arrivata, perché ne faccio un punto di orgoglio, ma credetemi: «Che fatica!»
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