Il racconto era stato inviato a un contest di scrittura, non essendo stato scelto lo pubblico qui.

Niente ferie quest’anno, aveva ceduto alla sua pigrizia e dopo un anno di scuola passato praticamente in auto per andare in su e giù dalla scuola superiore che le avevano assegnato non aveva nessuna voglia di muoversi, nemmeno per il più piccolo viaggetto.
Era stato un anno scolastico difficile e faticoso. il cambiamento era stato notevole: passare da una scuola media a una superiore le aveva scombussolato i programmi e aveva dovuto studiare per essere all’altezza di progetti a cui non era abituata.
Per questo se ne sarebbe stata a casa in attesa di rientrare nella sua scuola, quella che sentiva proprio sua a che aveva dovuto abbandonare per le incomprensioni con un preside che l’aveva presa di mira.
Quando ci pensava, la notte, aveva ancora gli incubi. Lui un ometto che le arrivava alla spalla, con l’aria più da contadino che professore, barba brizzolata e incolta come i capelli sempre arruffati e sudici. La sua divisa era una camicia a quadri, di cotone in estate e di flanella in inverno su pantaloni stazzonati e pieni di macchie. Contadino? Sembrava più un barbone che si aggirava per la scuola.
Quando era arrivato tutti gli insegnati si erano guardati allibiti. Una scuola d’élite come la loro data in mano a un simile tipo. Eppure era successo e, sebbene non tutti, alla fine ci si era dovuti adattare alla sua presenza.
Solo lei aveva avuto uno scontro che la faceva ancora star male.
Lo vedeva ancora a braccia conserte all’ingresso della scuola a controllare che arrivasse in orario o sulla porta della sua aula con un sorrisetto maligno: «Continui professoressa, continui pure… non ho intenzione di interromperla».
Se ne sta va lì in silenzio, guardava, osservava, ascoltava, mai un commento tranne che appena finita la lezione mandava un custode a dirle di consegnare il registro il presidenza. Registro che il giorno dopo le veniva restituito con commenti a margine, come se lei avesse ogni volta dovuto fare i compiti come i suoi alunni. «Manca questo, non ha segnato quest’altro…».
Ogni volta che apriva il registro era come se una stilettata arrivasse al suo amor proprio. Sapeva di essere una buona insegnate, i suoi alunni la amavano e anche loro si trovavano a disagio per le continue improvvise apparizioni del preside. Appena compariva nella luce della porta calava nella classe un silenzio di tomba e lei vedeva le occhiate che si scambiavano i ragazzi come a dire: «Ma che cosa vuole questo qui?»
Loro non lo sapevano, non potevano saperlo, che all’ultimo viaggio di istruzione lo aveva sorpreso in intimità con la vicepreside. Anche se era stata ben zitta, attenta a non farsi sfuggire niente, che potesse dare adito a illazioni, Lui ora aveva paura, paura che la storia venisse a galla, che lei parlasse, come se n fondo le importasse quello che Lui e la sua vice facevano nel tempo libero.
Già qualche mormorio si sentiva per i corridoi, troppe ore passate in presidenza con la porta chiusa, sguardi colti durante le riunioni, appuntamenti “di lavoro” oltre l’orario scolastico. Qualcuno si chiedeva anche come facesse una donna piacente e sempre elegante a sopportare la compagnia di un uomo che era in tutto per tutto l’opposto di lei. Eppure il fattaccio era successo in un albergo di montagna durante una settimana bianca.
Il suo girovagare notturno per i corridoi per sorvegliare che i ragazzi non uscissero dalle camere, l’aveva messa in difficoltà quando aveva visto Lui uscire a un’ora improbabile dalla camera di lei.
Il problema era che conosceva, e anche bene, i rispettivi consorti; cosa sarebbe successo se le fosse sfuggito anche solo una parola?
E allora Lui era lì sulla porta della sua aula a ricordarle che non doveva fare passi falsi, che aveva il coltello dalla parte del manico, che poteva boicottare tutti i suoi progetti, le gite, le visite guidate, cosa che d’altronde stava già facendo. Oltre alla sistematica annotazione del registro personale, le ordinava di tenere il verbale del Consiglio Docenti, quello del Consiglio d’Istituto, e tutte le beghe più antipatiche e che non voleva fare nessuno.
I colleghi si erano divisi, pur non conoscendo le ragioni dell’ostracismo, in due fazioni. Quelli che la sostenevano e la incoraggiavano e quelli che visto l’atteggiamento del capo si erano schierati dalla sua parte a caccia di favori.
Oggi sapeva che quello messo in pratica dall’ometto maligno si chiama mobbing, ma allora si limitava a subire, a non dormire la notte e a piangere quando non la vedeva nessuno.
A marzo, arrivata al colmo, si era decisa a chiedere l’assegnazione provvisoria in un’altra scuola, tutto pur di non restare lì a subire ancora le angherie di un dirigente che non vedeva l’ora che se ne andasse. Aveva anche fatto domanda di pensionamento anticipato perché non si sa mai… Era una eventualità remota, ma lei, esasperata, sarebbe anche andata in pensione volentieri.
Tutto come da copione, la scorsa estate aveva avuto l’assegnazione provvisoria in un Istituto di un paese vicino. Avrebbe dovuto prendere la macchina, la sede era un po’ più lontana, ma niente sembrava sacrificio pur di allontanarsi.
Così nell’ottobre precedente aveva preso servizio lontano, ma in un luogo decisamente più tranquillo e soprattutto fuori dalla vista del despota. Anche se aveva dovuto adattarsi a nuovi spazi, nuovi colleghi, nuovi programmi, alunni decisamente più problematici, era riuscita quasi a rilassarsi.
Due mesi dopo aver cominciato l’anno scolastico nella nuova scuola, poco prima di Natale, le era arrivata una telefonata da una collega con cui era rimasta in contatto:
«Questa la devi proprio sapere…»
«Cosa? Che cosa è successo di tanto importante?».
«È morto!».
«Chi, chi è morto?»
Lo avevano trovato riverso nel suo ufficio, probabilmente un infarto, quando a scuola non c’era nessuno. Nessuno da chiamare, nessuno a cui chiedere aiuto! Lo aveva trovato la vice che probabilmente aveva appuntamento con Lui. Chi va a scuola alle otto la sera?
Una valanga di pensieri e di rimorsi le erano caduti addosso.
Che tutte le ingiurie, gli improperi, le maledizioni che aveva scagliato fossero andati a segno? Se lo chiedeva ogni giorno. Quanto aveva desiderato che gli succedesse qualcosa che lo togliesse di mezzo… ma ora a cose fatte, si sentiva in colpa per le parole dette a voce alta o sussurrate, o urlate nei momenti di sconforto!
Certo aveva desiderato che morisse, chi non l’avrebbe fatto! Quando ci pensava le tornava in mente ogni parola. Ed era successo! Lui era morto, finito, non le avrebbe più potuto fare niente e lei avrebbe potuto tornate l’anno dopo nella sua scuola e riprendere il suo posto.
Aveva fatto subito domanda di rientro.
Era questo a cui stava pensando quella estate. A settembre avrebbe ricominciato con nuova lena, sarebbe rientrata nella scuola che sentiva sua, dove aveva insegnato per vent’anni. Avrebbe ritrovato i colleghi che le erano rimasti amici, avrebbe potuto realizzare liberamente le sue attività, già sognava di proporre una gita che voleva organizzare da molto tempo.
Nel caldo di agosto già cominciava a immaginare il momento in cui sarebbe entrata in sala professori, abbracciando le amiche e sdegnando le lecchine che erano rimaste a bocca asciutta a piangere l’orco.
Poi squillò il telefono.
«Professoressa, bisognerebbe che passasse in segreteria a firmare alcuni fogli…».
«Problemi?». Non voleva ancora problemi, no proprio no.
«Professoressa è arrivato il suo foglio di pensionamento.»
Cercò una sedia su cui sedersi.
«Pensione?»
«Sì, ricorda la domanda che ha fatto l’anno scorso? È arrivata ieri la risposta, se viene a firmare e l’accetta da settembre è in pensione.»
Le vacanze non sarebbero dunque durate un mese, ma da quel momento, con una firma avrebbe potuto essere libera del tutto. Finita la scuola, finito il lavoro, finito lo stress, addio alunni e colleghi, addio alla preparazione delle lezioni, addio alle levatacce, alle corse per correggere i compiti in tempo, addio ai Consigli di Classe e alla burocrazia.
Parola magica: pensione.
Pensò: una firma e quell’anno sarebbe andata in vacanza mentre tutti rientravano a scuola, Sarebbe partita, mare a settembre, quando mai le era capitato. E poi? Quante cose avrebbe potuto fare.
Per la prima volta benedisse l’orco che le aveva fatto compilare la domanda di pensionamento.
Non indugiò un attimo.
«Si, arrivo, tra poco sono lì»