Massimo Fini: “Una vita. Un libro per tutti. O per nessuno”

Massimo Fini lo conoscono tutti coloro che leggono giornali, giornalista e scrittore per passione e per vocazione, polemico, graffiante professionista della carta stampata.
Giornalista spesso scomodo, autore di libri che spaziano dalla storia alla filosofia, alla sociologia e alla politica, si è cimentato in una dichiarata autobiografia in cui racconta senza peli sulla lingua, come del resto è suo costume, ciò che è stata l’essenza della sua vita.

Mi ha piacevolmente colpito lo stile fluido del racconto, quasi un flusso di coscienza, che si deposita sulla pagina e che vaga da un argomento all’altro, da un episodio ad un altro così come si racconterebbe ad un amico, in una serata di confidenze seduto sul suo divano rosso, luogo di confessioni laiche di innumerevoli personaggi. “Sono molti, uomini importanti e persone qualunque, che sono venuti a confessarsi sul mio sdrucito divano rosso. Forse perché ho capacità e pazienza d’ascolto. Forse perché conservo sempre. una certa ‘pietas’, anche verso i nemici più acernmi… Non mi è mai riuscito di odiare veramente qualcuno…”

“Una vita” si legge in un fiato, come se si ascoltasse l’autore raccontare, si sente la sua voce, il ritmo delle parole dette più che scritte.

Una scrittura mimetica come lui stesso confessa: “Se nei miei articoli da inviato ho potuto dare, talvolta; l’impressione di essere un discreto narratore è perché ho una buona capacità mimetica e mi è sempre riuscito abbastanza facile scrivere ‘alla maniera di’ o rubare le immagini più efficaci da questo o quel romanziere. Ma il mio ,’realismo’, è stato sempre letterario, di seconda mano.”

Una dichiarazione che sembra quasi uno sminuire la sua capacità di scrittura, che invece è indubbia. Figlio di un giornalista, direttore di giornale, dichiara: “Scrivo meglio io di mio padre. Certamente, e su questo non ci piove,” la madre è una rifugiata russa “Questo ‘mix’ di due mondi, di due culture eterogenee, fa di me un vero ‘bastardo’ e credo che forse qui ci sia il germe della mia stranezza, della mia ‘diversità’, del mio essermi sempre sentito uno ‘straniero in patria’, […]

Ma fu quando mi recai in Russia, nel 1988, […] che capii che avevo anche altre radici e molto profonde, Nello spirito del popolo russo, Questo popolo immenso e affascinante, che è tutto e il contrario di tutto, sentimentale e crudele, generoso e avido, ospitale e infido, orgoglioso e masochista, scialacquatore, malinconico, fatalista, indolente, sognatore, melodrammatico (più dramma che melo), supremamente bugiardo, e comunque in ogni aspetto eccessivo, Ma una cosa non ha: il cinismo italico, roman-andreottiano. Che è sempre mancato anche a me.”

Una dichiarazione iniziale che spoglia il personaggio Fini e lo rende nudo sulla pagina per tutte quelle che rimangono da leggere. È questa la lente con cui esplorare l’autobiografia, Fini “bastardo”, posseduto dalle due culture che si mescolano nel suo dna, sempre alla costante ricerca di qualcosa, di qualcosa di più, di qualcosa di meglio, un inseguimento iniziato
nell’adolescenza e mai terminato. La ricerca del senso della vita, cercato e mai trovato, la confessione della sua timidezza di fondo che ha cercato di conpensare con l’aggressività sulla pagina scritta.

Dell’infanzia e giovinezza ricorda i luoghi in cui ha vissuto, la Milano non ancora cementificata, la passione per il gioco del calcio, mai abbandonata, il tifo per il Torino, trasmessa al figlio, e poi il “mondo borderline della mala milanese, i poveraccì, accattoni, clochard, barboni, alcolisti, piccola malavita, omosessuali fino a che sono stati costretti a vivere’ nelle catacombe (dopo sono diventati insopportabili). Insomma il mondo dei ‘relitti dell’esistenza’, i frequentatori dei ‘bar della rabbia’ di una bella canzone di Alessandro Mannarino.” Ricorda le notti trascorse a bere ed a giocare. A bere soprattuto, tanto da precipitare nell’alcolismo, da cui è faticosamente uscito pagando con una depressione durata anni.

Fini racconta il lavoro, le alternanze delle testate giornalistiche, i periodi di disoccupazione riempiti con la scrittura di libri e con una estempoaranea attività teatrale, “Cyrano, se vi pare…” tourneé vissuta con spirito quasi goliardico, alla svolta dei 60 anni, ma racconta anche gli amori, il sesso, le donne, il matrimonio e le fidanzate, con una impudicizia che ho trovato raramente in una autobiografia maschile.

Alla fine oltre la cecità che racconta quasi come un fastidio più che una menomazione rimane la sensazione di essere stato tutta la vita un uomo solo perché la vecchiaia è fatta anche di amici e amiche cari che via via, per una ragione o per l’altra, si perdono per strada. E si resta soli, benché “se mi volgo indietro non è così. Sono stato sposato, ho un figlio, ho avuto relazioni sentimentali importanti, donne quanto basta per disgustarsene, amicizie intense. Né posso essere così ingeneroso con me stesso da dire che nella mia esistenza non ho combinato nulla.”

E di cose ne ha combinate tante Massimo Fini nella sua vita, snocciolate pagina dopo pagina, tanto che dovrò rileggere questo libro così intenso per capire davvero, perché, per concludere con le sue parole: “l’importante non è sapere. Importante è capire.”


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