Testo inserito in “Stagioni per posta” della Libera Università dell’autobiografia.
Autunno

Da bambina l’autunno è sempre stato ritorno a scuola, come per miliardi di altri bambini e bambine, suppongo. Non è questo che vorrei dire, perché in effetti, dal momento che sono diventata insegnante per me l’autunno ha sempre significato ritorno a scuola.
Scuole, sempre uguali e sempre diverse, Grandi, con aule, dai banchi antichi, cattedre sui predellini, soffitti alti su cui rimbombavano le voci, con finestre enormi che davano su cortili quasi sempre deserti o viali ricoperti di foglie gialle, oppure aule nuove, moderne, grandi lavagne appese al muro che scorrevano una sopra l’altra, pavimenti lucidi, campanelle elettriche che scandivano le ore di lezione.
E poi aule in cui andavo a prendere la classe per portala in palestre anche quelle sempre diverse. Scuole, tante, corridoi, porte chiuse dietro le quali si sentivano sempre voci di insegnati, mai quelle degli scolari.
Poi le scuole si sono fatte sempre più rumorose, d’autunno vi entravo con sempre più disagio perché non riuscivo a trovare quell’atmosfera che nonostante tutto rimaneva nella mia mente, nei miei ricordi. La scuola che scandiva le stagioni e che in autunno cominciava il suo ciclo non era più la stessa, Nella scuola non ci sono più bambine e bambini con il fiocco rosa o azzurro che chiude il colletto bianco inamidato. Non si vedono più i grembiuli neri che facevano tutti uguali, le bambine con le trecce o i maschietti con i capelli perennemente scarmigliati. Non ci sono più le maestrine dalla penna rossa da libro Cuore.
È tutto cambiato, l’ultimo mio anno di insegnamento l’ho fatto in un Istituto professionale, scuola difficile, ragazzi e ragazze che amavano più andare a fumarsi una sigaretta al bar che venire in palestra. Ragazze con occhi smarriti e sfrontati nello stesso sguardo, ragazzi che sognavano solo di dare quattro calci a un pallone, e correvano, correvano per evitare le occasioni di dialogo. A me quei ragazzi e ragazze, giovani adolescenti di famiglie modeste mi sembravano sempre disperati, pur con i loro sorrisi di sufficienza, la loro spavalderia, la loro paura del futuro nascosta sotto ostentate sicurezze.
L’autunno ha sempre rappresentato l’inizio. Quando ho conosciuto il grande amore della mia vita, l’ho conosciuto d’autunno, e ricordo come se fosse ieri quando l’ho visto e ho detto dentro di me: “È lui!”
Mi ci sono seduta accanto e ho cominciato a parlare, e lo guardavo, un po‘ di traverso, ma lo guardavo. Scrutavo il suo viso un po‘ spigoloso, gli occhi brillanti, le labbra sottili, che ho tanto baciato, le mani grandi, forti, le gambe lunghe, e poi, dopo, quando si è alzato e mi ha girato le spalle, il suo sedere. Perfetto!
La scuola mi ha fregato, perché ha sempre rappresentato l’inizio, e l’autunno è sempre stato l’inizio, quando tutto si spoglia, la natura si spoglia, pronta al riposo per prendere fiato per riprendere le forze dopo l’esplosione dell’estate. I rumori piano, piano si acquietano, ci si siede sui banchi, arriva la stagione della riflessione, arriva gradatamente il silenzio, arriva lo studio mentre le giornate si accorciano, arriva il momento in cui un po’ alla volta si entra in se stessi, si ritorna nel nido, pronti a proteggersi dalle folate di vento, pronti a stringersi le ginocchia sul petto, la testa reclina e dormire, pronti al letargo, ma ancora con un occhio aperto e uno chiuso a spiare le ultime giornate di sole. L’autunno ha sempre rappresentato l’inizio anche quando si dorme per riprendere forza, è un inizio. Dormire, respirare piano, col naso, con la sensazione delle coperte che si fanno sempre più pesanti nel letto, e pensare che la scuola è lontana, ora altri percorrono corridoi, entrano in aule che non sono più le mie, posso dormire, riposare, pensare ad altri inizi.
Inverno

Io sono nata d’estate, l’inverno non è la mia stagione. Quando l’aria si fa fredda e le giornate diventano corte vado in letargo.
Amo i piccoli animali che dopo aver fatto provviste si ritirano nelle tane pronti a dormire per lunghe e lunghe ore, solo aprendo un occhio ogni tanto per sgranocchiare qualche ghianda o nocciola messa previdentemente da parte.
Divento un ghiro, o una marmotta che si acciambella sotto una coperta e aspetta che torni la primavera.
La mia provvista è fatta di libri e di sogni. I libri creano i sogni e i sogni cercano i libri per alimentarsi di storie.
Quando ero bambina, restavo da sola in casa per molte ore, abitavo in città, non avevo occasione di uscire, non avevo giardini, solo un grande terrazzo che dava sul nulla perché era la copertura di un cortile. Un terrazzo finto messo lì tra quattro mura con le finestre degli appartamenti dei piani superiori incombenti. D’estate ci giocavo a palla, lunghi giochi solitari: “Con due mani, con una mano, con un piede, giravolta…”, d’inverno mi mettevo dietro la finestra sul grande e comodo davanzale del salottino delle prove di mia nonna sarta e leggevo. Sfruttavo la luce del giorno fino in fondo, un libro in mano, libri che mi comperava lo zio. Uno dei tanti libri che collezionavo, come si collezionano bambole. Libri piccoli, poco costosi, non mi importavano le rilegature e la carta patinata, a me importava quello che c’era dentro e che mi faceva volare fuori dalle quattro mura del terrazzo che vedevo fuori dalla finestra. I libri della BUR, la Biblioteca Universale Rizzoli, i primi libri low-cost si direbbe oggi.
Zio mi dava ogni mese una fornitura di denaro da andare a spendere in libreria e io comprando la BUR potevo sfamarmi per tanto tempo. I libri singoli costavano 70 lire, cifra che si moltiplicava a seconda dello spessore del libro. Una specie di costo al chilo, o a pagine, più pagine c’erano e più l libro costava. A me non importava, di avere per le mani una carta giallina, poco fine, delle copertine tutte uguali, mi importava solo di leggere quello che c’era dentro.
È così che mi sono accostata ai classici, storie immortali che ancora conservo nella mia libreria, storie che mi portavano fuori dallo spazio angusto della finestra, fuori dallo spazio del terrazzo cortile, fuori dalle mura del palazzo, a correre e a farmi trasportare sul tappeto di Aladino ovunque volessi.
Ho vissuto per anni, di letture, lunghi inverni padani, freddi e nebbiosi, ma a me non importava, avevo i sogni a scaldarmi.
Primavera

Non mi ricordo la primavera da bambina…
Fino a sette anni ho abitato in una casa in città, le quinte del mio palcoscenico erano i muri rossi di mattoni delle case di fronte alle finestre, era la strada sottostante dove passavano ancora rare automobili.
L’unico sentore di primavera erano i cataloghi dei modelli di alta sartoria che arrivavano da Milano. Mia nonna sarta si faceva mandare le nuove collezioni dei grandi stilisti e quindi con i primi fiori sbocciavano i primi abiti leggeri, arrivavano le stoffe colorate e lievi, le mussole e i taffettà, le sete lucide e scivolose che prendevano forma di abiti nelle mani delle lavoranti della nonna.
La primavera era anche il periodo delle nuove canzoni, cantate dalle ragazze che mentre cucivano imparavano a memoria le arie del nuovo Sanremo ascoltato alla radio.
Arrivavano con la primavera anche le prime folate di vento che entravano dalla finestra del laboratorio finalmente aperta e che scompigliavano fili e ritagli di tessuto sparsi sul grande tavolo.
A primavera si cominciavano a scoprire le braccia bianche che spuntavano finalmente dalle maniche corte. Anche nonna, sempre perennemente vestita di nero, diventava più civettuola osando qualche vestito con piccoli disegni grigi sul fondo a lutto.
A primavera si toglievano dagli armadi i tailleur dai colori confetto, gli Chanel bordati di passamaneria, le prime scarpe aperte dietro dello stesso colore delle borsette piccole e dal manico arcuato, la chiusura che schioccava a ogni togliere e mettere e che facevano mia madre tanto signora. Io la accompagnavo con il mio vestitino di piqué bianco dal corpino a nido d’ape ricamato con piccoli fiori, unico prato nella mia primavera cittadina.
Quando dopo sette anni sono andata a vivere in una nuova casa affacciata su campi che non sarebbero durati a lungo, presto invasi da palazzi periferici, la natura era qualcosa che ancora stava fuori e l’unica cosa che ricordo erano le siepi di biancospino che all’improvviso fiorivano rendendo tutto bianco.
Io guardavo dal mio balcone come prima guardavo dalla finestra e l’unica differenza era che ora potevo uscire non solo con lo sguardo, ma ero io che mi sporgevo dalla ringhiera o che mi facevo scaldare tutto il corpo appoggiata con la schiena al muro finalmente caldo nelle prime ore del pomeriggio. Un libro in mano, aspettavo la mia personale primavera, aspettavo lo sbocciare del mio corpo, aspettavo il fermento dei primi umori, dei primi amori, in silenzio, chiusa nel mio mondo di fantasia fino a che dopo 10 anni dalla mia nascita è iniziata una nuova primavera con la nascita di mia sorella.
Nata il 26 marzo è stata lo spartiacque tra l’inverno dell’infanzia e la primavera dell’adolescenza, l’inizio delle responsabilità. La fine del letargo, il risveglio a una nuova vita.
Estate

Dopo una lunga attesa. La vita cambia
Ma cambia davvero?
O forse è solo un susseguissi di giorni un po’ più caldi, un po’ più vuoti?
Sono nata in estate, nel pieno dell’estate quando fa caldo, molto caldo! Immagino mia madre sudata e affaticata, a quei tempi non c’era l’aria condizionata, a casa di mia nonna – si perché sono nata in casa – nelle vampe afose della Bassa Pianura Padana, tra zanzare e vapori afrodisiaci di canapa che allora si coltivava ancora.
Ho sempre amato l’estate, meno se pensavo che alle feste del mio compleanno non c’era mai nessuno perché tutti già emigrati al mare, verso i lidi romagnoli che andavano, e vanno ancora, di moda.
Le mie estati da piccina, si dipanavano ancora di più nel laboratorio di mia nonna, bambina di città avevo molto tempo per giocare sotto il grande tavolo da lavoro. Quando sono andata ad abitare in periferia, l’estate erano giochi in cortile, una o due amichette a fare le mamme, far finta di cucinare foglie strappate ai rari cespugli. Vietatissimo superare la cancellata, tanto fuori non c’era nulla… oppure lunghe letture seduta sul balcone di cucina, quello in ombra, in compagnia di storie romantiche che mi piacciono ancora.
Villeggiatura? Erano 15 giorni al mare con papà, perché mamma lavorava alle poste e difficilmente aveva le ferie in agosto. Allora erano giorni sulla spiaggia dell’Adriatico sdraiata su un asciugamano a sbirciare i ragazzi con costumi che arrivavano alle ascelle e a sorvegliare la sorellina. Sapevo già nuotare, ma non amavo, e non amo tutt’ora, immergermi nell’acqua bassa e melmosa che bagna la Romagna. Ho scoperto il mare anni dopo quando mi sono ritrovata al sud, e allora è stato amore a prima vista. Galleggiare nell’acqua limpida soddisfa il mio bisogno di lasciarmi andare, l’acqua nelle orecchie attutisce tutti i rumori, il corpo non c’è più, fare il morto, annullarsi, dimenticarsi di esistere.
Estate oggi è vacanza, nel senso etimologico della parola, vacanza come vuoto, tempo da riempire con quello che desidero di più, silenzio, solitudine, pensieri e scrittura. Ho sfidato le persone che me lo chiedono dicendo: “Capiterà che vi dico che sono partita e invece me ne starò in casa con le finestre chiuse. Penserete che me ne sono andata davvero e invece io sarò lì nel vuoto della mia vacanza ideale.”
Estate, oggi il mio mondo è qui, in questa mini casa, affacciata su un giardino segreto, tra una palma e una strada, casa solitaria in cui il silenzio diventa rumore assordante. Adoro il silenzio dell’estate quando tutti scappano e io rimango qui. Ho installato l’aria condizionata e quindi anche il disagio di un caldo eccessivo è sollevato.
Estate, quando le giornate cominciano alle 5 la mattina e posso alzarmi con la luce che filtra tra le fessure delle persiane, aprire la finestra e ascoltare il rumore di fondo della città, un brontolio continuo che lascia strisce invisibili ma persistenti dentro l’orecchio. Poi appena la casa si è rinfrescata, chiudere la finestra e rientrare nell’acquario, pesce rosso senza branchie, galleggiare nei pensieri che si fanno sempre più densi.
Estate, leccare lentamente un gelato combattendo tra il desiderio di farlo durare più a lungo possibile e le leggi della fisica che trascinano verso il basso colature di crema e cioccolato.
Estate, lasciarsi prendere dalla noia rigeneratrice, farsi catturare da fantasie improbabili, sedersi in poltrona dopo pranzo e dormire lasciando aperta la porta ai sogni, svegliarsi con ancora l’amaro del caffè in bocca e chiedersi che ora è.
Estate, rincorrere in internet le puntate perdute dei telefilm, piangere vergognandosi, ridere inutilmente, tanto nessuno mi sente.
Estate, aspettare che passi, perché poi, se tutto va bene, si può ricominciare.
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