
Sono abbastanza refrattaria, in questo periodo a visioni di violenza e sopraffazione. Se ne vedono tante in TV anche senza cercarle che pensare di andare al cinema per vedere un film sull’odissea di due ragazzi che intraprendono il viaggio per raggiungere l’Europa, partendo dal Senegal, mi faceva star male ancor prima di entrare in sala.
Sappiamo tutti, perché le notizie le leggiamo, che arrivare in Europa dall’Africa è un viaggio pericoloso e spesso mortale, quindi mi ero predisposta a visioni raccapriccianti, invece il film di Garrone mi è piaciuto perché, sì racconta la verità, ma non ci si sofferma con morbosità, racconta in forma piana e semplice quello che effettivamente succede a chi con coraggio e un po’ di incoscienza si accinge a partire, a chi decide di mettersi in viaggio.
Non mancano le scene crude di realismo specialmente nella parte dell’attraversamento del deserto del Sahara e dell’arrivo in Libia dove i migranti diventano merce da vendere al miglior offerente come schiavi da sfruttare per denaro, ma ci sono anche momenti di amicizia, solidarietà, altruismo che diventano ancora più preziosi quando sono solo perle da raccogliere nel letamaio di una esistenza sfruttata e disprezzata.
I due cugini che partono all’insaputa della famiglia per una avventura più grande si loro compiono il loro rito di iniziazione, il loro passaggio dall’adolescenza spensierata alla realtà della vita adulta, attraverso le difficoltà rivelano il loro carattere, liberano le loro potenzialità, trasformandosi in uomini degni del loro nome. Il protagonista, Seydou, si trova ad affrontare prove terribili, ma non perde mai la sua indole generosa e proprio per questo riesce a superare le difficoltà e a salvare non solo se stesso, ma anche il cugino che sta pensando di rinunciare al sogno di arrivare alla meta tanto agognata.
Seydou, stesso nome dell’attore che lo interpreta, diventa capitano non solo del barcone che attraversa il mediterraneo al termine del film, ma anche capitano di se stesso, e lo urla forte, nella scena finale da cui deriva il titolo del film: «Io capitano!» Un grido che riesce soverchiare anche il rumore dell’elicottero che li ha trovati e che si suppone li salverà. Lui è capitano, è diventato capitano capace di prendersi la responsabilità non solo della sua vita ma anche delle vite che gli sono state affidate. La sua paura di non farcela e il sollievo nel capire che ce l’ha fatta sono tutte in quel grido e nell’inquadratura in primo piano del suo volto di giovane uomo.
Il film non è doppiato ma sottotitolato, e questo rende tutta pellicola più reale nella sua drammaticità, le musiche non soverchiano mai ciò che sta avvenendo sullo schermo, ma accompagnano le emozioni degli attori, bella la fotografia, con paesaggi mozzafiato, specialmente nel deserto.
È un film che consiglio di vedere a tutti: quelli pro e quelli contro, quelli che si girano dall’altra parte e quelli che si fanno carico di aiutare, a chi sa e a chi non vuole sapere.
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