Incipit a Palazzo Strozzi

Giovedì 8 sono andata al secondo incontro di “Incipit”, una forma di visita della mostra che c’è in questo periodo a Palazzo Strozzi diversa dalla solita giratina con spiegazione.

Si parte da un libro, scelto dalle bibliotecarie fiorentine che hanno cercato testi che si potessero mettere a confronto con le opere esposte, accompagnate da una ragazza bravissima e molto preparata si cerca di effettuare un percorso seguendo i temi rilevanti del libro. Il libro guida di questo incontro era “Questi capelli” di Djaimilia Pereira de Almeda, scrittrice portoghese con madre angolana.  Non ho letto il libro, ma mi è venuta la curiosità di leggerlo perché deve sotto l’apparente frivolezza dell’argomento, apparentemente leggero, c’è una forza inaspettata. I capelli diventano metafora dell’appartenenza ad un gruppo, il voler cambiare acconciatura è passare a voler assumere diverse identità.

Le opere che hanno fatto da palcoscenico alla lettura di brani del libro hanno sottolineato proprio la fluidità dell’essere a metà tra due paesi – Angola e Portogallo – tra due continenti – Africa ed Europa – e infine anche tra l’essere figlia di genitori di diversa etnia.

Tutte le opere scelte hanno la caratteristica dell’ambiguità, sottile e appena accennata o palese provocatoria. Mi ha colpito in special modo Sarah Lucas con il suo “Love me” che rappresenta un corpo femminile che sembra uscire dalla schienale di una sedia e che se ne sta mollemente appoggiato, ma contemporaneamente si trasforma e diventa qualcos’altro.

C’è tutta la trasformazione di qualcosa che prima è un corpo e poi diventa , forse, animale, o forse oggetto? Lo stesso fa la scrittrice quando dice: “la casa stregata che rappresenta per la ragazza che sono qualunque parrucchiere e spesso ciò che mi resta dell’Africa e della storia della dignità dei miei antenati“. Il parrucchiere è una casa stregata che trasforma e che da, o toglie, dignità a ciò che si è.

Ma anche le altre opere sono significative: la partita con il biliardino a 11 posti che impegna due squadre contrapposte di bianchi e neri di Cattelan. I giocatori di colore hanno sulla maglia il nome della loro formazione: “RAUSS” sottolineato da una freccia che li porta fuori, poi il bellissimo ritratto di Shirin Neshat che fissa lo spettatore e gli punta contro una pistola, le fotografie di Cindy Sherman che sembrano autoritratti e che invece sono costruzioni e ricostruzioni di stereotipi del cinema e per finire il quadro di Lynette Yiadom-Boakye che girandoci le spalle sembra volerci dire: guardatemi pure, ma io me ne vado per la mia strada.

Una immersione profonda nell’ambiguità di una persona che non sa mai dove è, dove deve stare o può stare. Seguire il percorso artistico anche attraverso le parole di una autrice che si esprime, non con la materia ma, con le parole è stato affascinante e mi ha dato una nuova prospettiva, uno sguardo nuovo, ha aperto nuovi orizzonti e contribuito a farmi capire, se questa parola può essere esatta, quello che vuole esprimere l’arte contemporanea.


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