Giorgio Bassani: “Gli occhiali d’oro”


Un libro a cui mi sono avvicinata con affetto, capitato per caso; una sera a cena mi sono sentita dire: «Il libro che leggeremo il prossimo mese, sarà “Gli occhiali d’oro” di Bassani.» 

Conoscevo Bassani, almeno per sentito dire, perché so che cosa ha scritto, perché so che è di Ferrara anche se nato a Bologna, mentre io sono nata a Ferrara e poi me ne sono andata. 

Ferrara, la città rossa, la città delle case di mattoni, del Castello imponente che domina il centro, della sua Cattedrale, delle innumerevoli biciclette che la percorrono… Ferrara, città di provincia, dove tutti si conoscono, e dove anche nel libro di Bassani ho ritrovato luoghi e nomi già percepiti.

Due i protagonisti, un io narrante che si può facilmente identificare con lo scrittore stesso e il dott. Fadigati, personaggio inquieto e un po’ misterioso che catapultato nella Ferrara fascista degli anni ’30, fa parlare e mormorare i benpensanti. Uomo solitario, non ci vuole molto a suscitare pettegolezzi, perché non si è sposato? Perché non ha una donna? Perché se ne va in giro di notte per la città? 

L’io narrante – non sappiamo il suo nome- conosce il medico sul treno dei pendolari che da Ferrara a Bologna porta anche gli studenti universitari. Prima da solo in seconda classe, poi attratto dalla compagnia dei giovani si siede con loro in terza. Li ascolta, non interviene, ma è una presenza costante che attira l’attenzione.

Si sa, i diversi per un po’ riescono a mascherare la loro diversità, ma poi una battuta di qualcuno che non ha peli sulla lingua, una cattiveria prima sussurrata e poi buttata nel mucchio rivela ciò che non è stato detto, la maldicenza, la verità che l’uomo forte non può tollerare. Fadigati è omosessuale, per questo è sempre solo e il suo girovagare di notte suscita congetture.

Fadigati è diverso dall’idea di uomo che il fascismo vuole per i maschi italiani, è mite, un po’ timido, preso di mira dal bullo di turno che poi si approfitterà di lui.

E il nostro io senza nome? Anch’egli appartiene ad una minoranza, diversa ma sempre minoranza, che sta per essere colpita da quella che è stata la più terribile delle emarginazioni: la shoa. Chi narra, in prima persona è ebreo, abbastanza consapevole di quello che verrà, al contrario della sua famiglia che ancora si illude, e trova nella solitudine del dottore dagli occhiali d’oro il riflesso della propria solitudine.

E tutto questo avviene nelle strade di ciottoli di una Ferrara nebbiosa e silenziosa, su un treno che sento io stessa sferragliare perché conosco, perché ci sono salita.

Nel finale tragico della storia, ci ho sentito tutta l’amarezza di un uomo, il Bassani stesso, che non può fare nulla per salvare l’amico, perché deve salvare se stesso.

Gli occhiali d’oro sono il simbolo di un mondo che non c’è più, in un racconto che narra la solitudine, l’emarginazione del diverso.

Ed io? mentre leggevo mi vedevo nei luoghi che ho percorso nell’infanzia e che ancora percorro quando mi capita di andare a Ferrara. Sentivo il silenzio delle sue strade, nessun’altra città è così silenziosa, vedevo il quartiere medievale con la sue strade strette e i palazzi estensi di marmo. Vedevo e percorrevo con la mente la strada che porta alla Certosa, accarezzavo il bugnato del Palazzo dei Diamanti.

Per me leggere questo libro è stato un atto d’amore, un tuffarmi nei ricordi, un sentire che quello che sentiva l’io narrante era anche quello che sentivo io. Camminargli accanto è stato bello, no non bello, è stato ritrovare me stessa.

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