Flaneur de chambre


Quando sono venuta ad abitare in questa casa, mi sono sentita per un po’ di tempo costretta tra quattro mura che non mi appartenevano, Una casetta piccola -si a misura mia- ma molto diversa da quella dove avevo trascorso tanti anni dove ero morta e poi rinata, dove avevo cresciuto mio figlio e dove avevo trovato l’indipendenza. Ora mi trovo in questo periodo di pandemia a fare il criceto in gabbia, andando su e giù a consumare il pavimento che va dallo studio al salotto. Nove metri e mezzo ripetuti avanti e indietro per sopperire alla mancanza di movimento. Non credo che mi metterò mai in casa un criceto, vederlo correre sulla ruota mi darebbe troppa angoscia, e rievocherebbe con troppa fedeltà i passi che stanno consumendo le assi del parquet. Una volta, durante il primo Look Down ho visto alla televisione che un maratoneta si allenava correndo avanti e indietro su un lungo terrazzo, lì per lì mi sembrò una follia, ma come dice il mio motto “mai dire mai” mi sono trovata a fare la stessa cosa. In questi giorni quasi primaverili ma ancora freddi, con il vento che scuote il cipresso del giardino, i miei passi esplorano la corsia che attraversa l’appartamento. 12 passi verso nord, poi 12 verso sud, poi ancora nord e poi sud , nord, sud, una giravolta alla finestra della strada e un’altra alla finestra del giardino, trenta minuti per volta, tre volte al giorno, mi mantengo in forma e faccio andare le gambe, cammino e osservo. Sulla parete del salotto mentre vado verso sud, passo davanti al televisore, poi una sbirciatina alla libreria con i libri antichi -dovrei sistemarli, mi dico sempre-, due passi e supero il corridoio con il pavimento un po’ sconnesso -accidenti a non aver dato l’incarico a un professionista!- altro passo e sono in camera, con lo specchio dell’armadio alla mia destra che rimanda la mia immagine impietosa, ancora uno e sono davanti alla finestra del giardino, un’occhiata fuori  per essere sicura che nessuno mi stia guardando e poi piroetta e via verso nord.

Il gatto sul suo trespolo cerca di afferrarmi, sconcertato da questo mio andare su e giù, protende la zampina come volermi fermare e dire, ma dove vai, cosa fai? Passo accanto al mio letto, ancora sfatto al mattino all’ora della prima tappa, supero di un balzo l’interregno del corridoio e mi rifiondo  in salotto lasciandomi sulla destra poltrona soporifera e divano letto. Ancora un passo e sono davanti alla finestra che da sulla strada. Anche qui una veloce sbirciata fuori per vedere chi passa, un autobus semivuoto, qualche macchina che frena al semaforo o accelera col giallo, osservo di sfuggita la bandiera della Lilli che sventola e che mi da la misura del vento, del tempo e dell’umore.

E si ricomincia, i miei piedi consumano il parquet già abbastanza consumato, le mie gambe si muovono ad un ritmo sostenuto -altrimenti che allenamento è?- e le mie orecchie ascoltano l’ultimo audiolibro scaricato con la voce del lettore che mi racconta la favola non della buona notte, ma del risveglio. Ogni tanto un’occhiata al cronometro, per vedere quanto tempo rimane ancora da passare su e giù, su e giù, su e giù… Devo dire però che da quando  ho cominciato, sono migliorata, l’allenamento funziona, le gambe reggono, il fiato aumenta e il mal di schiena arriva sempre più tardi. Mi dico che è il modo migliore per fare movimento anche a volte mi chiedo se forse sarebbe meglio uscire, ma ancora non mi sento sicura, il terreno sconnesso dei marciapiedi mi fa ancora troppa paura, ho timore di inciampare, di trovare un osso di formica che  mi faccia cadere. So che via via che avanzerà la buona stagione porterò il criceto sempre più spesso all’aperto, comincerò ad esplorare il pavimento pubblico che corre intorno alla mia casa, poi comincerò ad allontanarmi un pochino, sempre che le gambe e il fiato me lo permettano. Ma perché no? Arriverà primavera, e poi l’estate… saremo ancora legate alla paura? Nel frattempo imito il criceto  e mi faccio rincorrere dalla gatta che non capisce e vorrebbe fermarmi, esploro il pavimento, lo consumo, lo lucido, lo segno e guardo il mio microcosmo fatto di oggetti familiari e conosciuti. 


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