Ferite e feritoie


Il lavoro di cura è trasformare una ferita in una feritoia, Aldo Carotenuto.

Ho letto questa frase nel libro di Annamaria Testa e mi è subito risuonata come se fosse qualcosa che stava dentro di me e che all’improvviso avesse preso voce. È la descrizione con poche parole della mia filosofia di vita, non so quando ho imparato a vedere le ferite come feritoie, certo che ho dovuto imparare, perché non è sempre facile. 

Sprazzi di luce

Io -l’ho sempre detto- sono una inguaribile ottimista, non riesco a vedere il lato peggiore delle cose e degli avvenimenti, istintivamente cerco la piccola luce che possa darmi una speranza, c’è sempre, e anche quando tutto sembra davvero perduto uno spiraglio, una feritoia che lascia passare qualcosa. 

C’è sempre. 

Credo che sia stato l’ottimo lavoro che hanno fa fatto con me Patrizia e Nanni, dopo il baratro in cui ero precipitata, sono stati tanto bravi che hanno saputo riaccendere fiammelle inaspettate, ora dopo tanti anni la mia vita è cambiata, in meglio, riesco anche a sorridere di intoppi che possono capitarmi, ed ho soprattutto imparato la pazienza. Inoltre la frase di stamattina l’ha scritta Aldo Carotenuto che ho conosciuto quando ero una paziente di Patrizia, Me lo ricordo quando ci faceva”giocare” con i nostri problemi, proprio per rompere schemi calcificati dentro di noi. Da lui e Patrizia, sua allieva, ho imparato che c’è sempre una via d’uscita, basta mettere gli occhiali dello sguardo laterale, cambiare prospettiva, “andare sul balcone” per avere una panoramica di quello che ci sta succedendo.

Certo ancora se succede qualcosa di spiacevole soffro, eccome se soffro! ma la mia sofferenza non deve paralizzarmi e farmi chiudere a tutte le possibilità del mondo. Un angolino ci sarà pure anche per me. Ho imparato ad ascoltare, a guardare, a riflettere senza farmi prendere dal panico. Ho superato i grandi dispiaceri, il crollo di molte sicurezze che si erano sedimentate negli anni, non sono più la bambina sognante, ma nemmeno cinica e disillusa. Mi sento bene, anche con i problemi che il 2020 ha messo sulla mia strada. La malattia dentro e fuori di me, mi ha provata, ma nello stesso tempo mi ha fortificata, ero sicura che qualcosa di buono sarebbe uscito dalla piccola feritoia della mia ferita.

Oggi che è il solstizio d’inverno lo so, perché da oggi in poi le giornate si allungheranno, il punto più basso dell’anno è stato raggiunto, ora non si potrà che risalire. È l’attimo in cui qualcosa finisce e qualcosa comincia, un piccolo infinitesimale interstizio, un passaggio che ci si accorge di aver superato solo quando sei al di là. Non ci si accorge mai di stare vivendo qualcosa di grande e importante, lo si apprende dopo quando ci si guarda indietro e si dice: Ecco è fatta! questo granello di sabbia l’ho saltato, ora affrontiamo il secondo, poi il terzo e alla fine tutta la spiaggia.

Quest’estate quando ero nel meraviglioso mare di Puglia e mi cullavo sostenuta dalla salinità delle onde, ero felice, ma riuscivo a realizzare la felicità solo nel momento in cui appoggiavo i piedi sul fondo e uscivo grondante di acqua di mare e mi leccavo le labbra per sentire il sale, poi mi scaldavo e asciugavo al sole prima di riprendere la via di casa. Nel silenzio delle prime ore del mattino sentivo che non poteva esserci in quel momento nulla di meglio, che il mio posto era quello e che tutte le ferite, le piaghe, i fastidi erano in me solo per farmi apprezzare di più quello che stavo facendo. Erano feritoie in cui assieme all’acqua entrava la speranza, entravano i progetti, entravano le persone care, gli amici, e anche chi non c’era più perché se ne era andato.

Quindi… ben vengano le ferite, se devono poi farmi crescere e apprezzare di più quello che ho. Evviva le feritoie che illuminano il mio castello che sta diventando un vero colabrodo. E poi non mi dimentico che se il sole può entrare può anche uscire e far capire che anche dentro al castello ci sono saloni illuminati.


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