Duplex


È un po’ di tempo che mi capita di viaggiare molto con i messi pubblici. È una vera e propria palestra di osservazione dell’umanità che mi circonda. In autobus tutti hanno il cellulare in mano, stamattina, addirittura, una ragazza ne aveva due. Stava parlando con qualcuno – auricolari inseriti- e non so cosa facesse con l’altro. Il tragitto che faccio solitamente dura una quindicina di minuti, non tanto, ma nemmeno poco, ma la ragazza in questione non ha mai smesso di parlare con la sua misteriosa interlocutrice, o interlocutore. Parlava in spagnolo -credo, avrebbe anche potuto essere portoghese- quindi non capivo quello che stava raccontando. A volte mi piace spiare le conversazioni per farmi un’idea di chi mi sta di fronte… Assistendo alla scena sono stata catapultata nei lontani anni ’60 quando mio padre fece installare il telefono a casa nostra. Per limitare le spese avevamo un duplex con i nostri vicini di pianerottolo e fu allora che scattò la: “Sindrome da duplex“.

Ogni volta che si telefonava, o qualcuno ci chiamava era un continuo: “Dai attacca!, non stare molto! Non tenere occupato il telefono! E se i S. Devono telefonare?” Insomma non ci si poteva godere una conversazione in pace. Considerando anche il fatto che il telefono era attaccato alla parete dell’ingresso, in alto, le conversazioni erano scomode perché bisognava stare in piedi appoggiati al muro o se si era previdenti seduti su una seggiola, nel bel mezzo del passaggio. La privacy -ma questa parola non era ancora stata inventata- non esisteva e mia madre oltre alle esortazioni di cui sopra poteva sentire tutto quello che dicevo.

Oggi i ragazzi e le ragazze -ma non solo loro- che incontro sui mezzi pubblici sussurrano per ore muovendo le labbra in conversazioni che se uno non sapesse che stanno parlando al telefono, penserebbe che sono pazzi. Il mondo è cambiato, ma soprattutto io non ho più 18 anni!


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