Davide Longo: “Il caso Bramard”


Cosa rimane di un libro dopo che è stato letto, a parte la polvere che si accumula una volta riposto in una libreria? Dipende, dipende dal libro.

Ci sono libri che restano per un po’ per la bella storia che è stata raccontata, se è un saggio per le cose che abbiamo approfondito, restano per la curiosità che hanno suscitato oppure non resta niente… perché sono passati attraverso di noi come meteore, ci hanno dato momenti, sì piacevoli, ma subito dimenticati.

Sono una che si può definire una lettrice forte e tutto non posso ricordare, a volte mi capita di pensare che forse quel libro, quel romanzo l’ho letto, ma non ricordo niente o poco del contenuto… 

Quando poi si tratta di un giallo, spero sempre che la soluzione arrivi in fondo, ma proprio in fondo perché altrimenti la delusione mi prende e vorrei lasciare la lettura.

Per il caso Bramard è stato diverso, giallo, soluzione finale, non del tutto scontata, anche se avevo subdorato qualcosa… ma quello che mi è rimasto di questo libro è stata la lingua.

Una lingua espressa con una  scrittura per niente ridondante, una scrittura stringata, con dialoghi che devi rileggerli due volte per seguirli, dialoghi reali, con sottintesi, dialoghi di persone che si conoscono e che quindi non hanno bisogno di tante parole. Una scrittura concentrata, senza una parola superflua che porta diritta al punto. 

Poi all’improvviso all’interno di questa scrittura così essenziale, spuntano alcune righe di vera poesia. 

La poesia è quella forma di scrittura in cui non è necessario dire, ma far sentire.Si sente all’improvviso “l’odore di pacificata rovina”, si vede “una bellezza che richiede pazienza per essere compresa”, si ascoltano “gli addii carichi di cose taciute”.

Ci troviamo all’improvviso davanti a qualcuno che “ha i polsi che gli escono dalle maniche del giubbotto come snodi di una vecchia lampada da tecnigrafo” ed entriamo in una stanza di ospedale a “tre letti, tutti occupati da gente che non sarebbe tornata a casa”, che delicatezza in questa sola frase.

A me di questo libro è rimasta la poesia e il sottile pensiero che “sotto occhi lentissimi” fa chiedere “come può esser così leggero il male?

Il male in una trama gialla, è dentro la storia, non ci sarebbe storia senza delitto, senza il male che scava la mente, che ha lo stesso effetto della goccia che scava la pietra.

E questa trama ha il male dentro, un male che si porta dietro come un peso dentro uno zaino da montagna. 

Ma alla fine si arriva alla vetta, non senza essersi sbucciato, o ferito, toccato nel corpo e nella mente, barcamenato tra dolori e sentimenti, che lasciano il lettore pronto per un nuovo capitolo. Perché deve esserci un nuovo capitolo a questa storia di morte e di rinascita, anzi di resurrezione. 

Per leggere il “Caso Bramard”, se vi ho incuriosito, cliccate qui.


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