C’era una volta una fata…


 C’era una volta una fata che si chiamava “Quartodiluna” e che viveva su una montagna. La montagna era molto ripida e nessuno riusciva a raggiungere la casa della fata che diventava sempre più triste perché soffriva tanto la solitudine e nessuno riusciva ad arrivare a farle visita.

La montagna era altissima con le pareti scoscese e piena di boschi bellissimi ma tanto fitti da non far passare nessuno.

Una volta c’era stata una scala che pur essendo ripida consentiva l’accesso alla casa della fata che era costruita a ridosso della cima perennemente innevata. 

Quartodiluna ci abitava da sola, da quando il mago, suo padre, aveva deciso che lei era abbastanza grande per poter cavarsela da sola. Le aveva regalato una collana con un pendente a forma di quarto di luna e degli orecchini scintillanti come stelle, Quando Quartodiluna si affacciava alla finestra le stelle scintillavano nella notte e fino alla fine dell’orizzonte.

Una sera mentre Quartodiluna era sulla torre più alta del suo castello si posò su uno dei merli una grande aquila, era nera come il cielo notturno e la fata lì per lì non riusciva a vederla, sentiva solo che le ali sbattevano e dovette aguzzare la vista per notarla, rannicchiata tra un merlo e l’altro.

«Ciao, uccello, chi sei? Come sei arrivato fin quassù?» domandò Quartodiluna.

«Non sono un semplice uccello, sono un’aquila, e volo sempre altissima nel cielo, faccio il nido nei luoghi più impervi perché più sicuri e perché così, dall’alto, posso osservare chi è laggiù nella valle»

«Oh, potessi anche io volare come fai tu per andarmene. Sono sempre sola e nessuno riesce ad arrivare fino a qui perché la strada è impervia e le difficoltà sono tante.»

«Sono arrivata io, non sei contenta? Fino a che non nascono gli aquilotti – vedi ci sono quattro uova qui nel nido – io rimarrò e potremo farci compagnia»

«Grazie aquila, io sono una fata, ma non so ancora bene che cosa so fare. Mio padre se ne è andato dicendomi che dovevo cavarmela da sola, ma io non so bene che cosa dovrei fare. Aquila che cosa fanno le fate?»

«A quanto ne so, le fate fanno magie, pronunciano formule magiche e riescono a cambiare la cose, a mutare il tempo e a realizzare i desideri.»

«Ma io non so come si fa, nessuno me lo ha insegnato e non conosco formule magiche per realizzare le magie» così dicendo Quartodiluna cominciò a piangere e grosse lacrime le scendevano lungo le guance inzuppando il suo bellissimo abito blu, spargendosi anche sui suoi capelli e bagnando anche le ali dell’aquila che stava vicino a lei.

Piangeva tanto che un secchio che era posato ai suoi piedi si riempì quasi completamente.

Quando il secchio si fu riempito del tutto, all’improvviso tutte le lacrime della fata, crearono una grande onda e si riversarono lungo la montagna, rotolarono giù e poi rimbalzarono verso l’alto, dividendosi in innumerevoli gocce che arrivarono fino al cielo.

La fata non credeva ai propri occhi quando vide il cielo illuminarsi quasi a giorno pieno di lucciole brillanti che punteggiavano la notte.

«Guarda aquila, non sono più sola, il cielo non è più buio, ora è pieno di stelle uguali a quelle che mi ha regalato mio padre, le mie lacrime di dolore sono diventate astri luminosi, e solo adesso ho capito che la magia sta nel capire che anche i dolori possono portare qualcosa di buono. Basta lasciarli andare e loro si trasformeranno in stelle. Anche il mio abito ora è punteggiato di stelle e anche le tue ali non sono più solo nere, riesco a vederti perché anche tu sei diventata pieno di luce»

L’aquila spiegò le ali e in effetti le sue penne non erano più simili a quelle di un corvo, ma piccoli puntini brillanti le rendevano simili a un cielo stellato.

«Hai fatto il miracolo, le tue lacrime hanno arricchito il mondo, ma ora basta piangere, non sei più sola, tutti quelli che guarderanno in sù verso al tua montagna vedranno la bellezza che hai creato.»

Quartodiluna allora smise di piangere e all’improvviso sentì che la gioia, invece della tristezza si impadroniva della sua esistenza, guardò il ciondolo uguale al suo nome e lo portò in alto mettendolo al centro del firmamento.

Il ciondolo piano piano cominciò a diventare sempre più tondo fino a diventare un disco grande e sorridente che la guardava dall’alto, poi piano piano si rimpicciolì e Quartodiluna disse: «Non sono più Quartodiluna, da ora in poi mi chiamerò Luna e ogni mese solleverò il mio ciondolo e lo lascerò per un po’ nel cielo. tutti coloro che lo guarderanno potranno esprimere dei desideri ed io da quassù potrò esaudirli»

E così fù, Luna da allora brilla nel cielo per un po’, si nasconde, ma poi riappare per esaudire i desideri degli innamorati che si rivolgono a lei.

Scritto per Laboratorio di scrittura Gruppo Scrittori Firenze


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