
Mi sarei aspettata qualcosa di più da due grandi del cinema americano, Ben Affleck e Matt Damon che hanno prodotto il film, scritto la sceneggiatura e vi hanno recitato. Affleck ne ha anche curato la regia…
Purtroppo mi è sembrato un film scritto e interpretato solo per fare un grande piacere all’industria americana, una grande apologia di un marchio commerciale statunitense in competizione con altri marchi concorrenti.
Come la “Nike” – non quella di Samotracia – sia arrivata a far indossare le sue scarpe da basket al grande Michael Jordan quando Jordan non era ancora Jordan è il succo del film.
È il racconto di uno spavaldo accerchiamento all’atleta e alla sua famiglia condotto da un imbolsito Matt Damon che per risollevare le sorti dell’azienda – che tra l’altro si chiama così non tanto per una allusione alla Vittoria, ma solo perché è un nome di 4 cifre! – tira fuori dal cappello a cilindro, o meglio dal canestro, il nome di una promessa diciottenne basandosi esclusivamente sulla sua intuizione di osservatore di giovani talenti. Che poi quella promessa sia stata mantenuta è storia che tutti conoscono. Michael Jordan è diventato uno dei più grandi, se non il più grande, giocatore di tutti i tempi e tutte le previsioni di vendita delle scarpe da lui indossate si sono moltiplicate in modo esponenziale!
La cosa interessante nel film è il ruolo della madre di Jordan che da vera procuratrice occulta, riesce a strappare oltre al compenso forfettario per la sponsorizzazione del figlio, anche una percentuale sulle vendite delle “Air Jordan” la scarpa che “rimane solo una scarpa fino a quando qualcuno non la indossa“.
Un colpo grosso perché di scarpe “Air Jordan” ne sono state vendute tante, ma proprio tante! in tutto il mondo.
Mi è piaciuta nel film la carrellata di repertorio che ripercorre gli anni ’80, e l’ambientazione fedele a quelli che erano i canoni di quegli anni. I primi computer a fosfori verdi, le cassette video, i TV ancora belli panciuti, le automobili americane lunghe quanto 4 delle nostre. Ma interessante anche la progettazione della scarpa da parte di un calzolaio che si è dimostrato davvero geniale nel costruire una calzatura che potesse essere l’immagine di Jordan. Il resto, a parte le sfuriate al telefono, ancora prigioniero del filo, con corredo di parolacce, mi ha detto poco; unico, pieno di trasporto, il monologo di Damon per convincere Jordan a unirsi alla Nike, con primi piani ravvicinati che volevano far sentire come potesse essere forte la passione che esprimeva.
Il resto è un lunghissimo spot pubblicitario della Nike.