
La mia prima impressione leggendo il libro di Lidia Ravera è stata di avere di fronte una scrittrice molto arrabbiata. Il racconto si snoda come un lungo flusso di coscienza in cui le considerazioni sulla vecchiaia in generale si mescolano alle sensazioni dell’autrice sulla “sua” vecchiaia.
Ho assistito a una conferenza di Lidia Ravera nel 2000, quando frequentavo assiduamente la Libera Università dell’autobiografia, al Convegno organizzato a maggio di quell’anno,
Già allora la Ravera concepiva il passare del tempo quasi come una minaccia, qualcosa di inesorabile, concepiva le stagioni della vita come passaggi stagni chiusi da porte che non lasciano vedere quello che c’è dietro e che una volta varcate è impossibile tornare indietro.
Paesi stranieri dove «appena ci arrivi ti senti smarrita, è logico: non capisci la lingua, calcoli male il cambio della moneta. Non conosci nessuno. Nessuno ti conosce. Poi, poco per volta, ti abitui ai nuovi costumi, impari a esprimerti nell’idioma locale, apprezzi il panorama, ti accoccoli fra i tuoi simili, a tuo agio» ma dura poco perché «Appena ti sei ben assestata nella nuova condizione, vieni espulsa, costretta a traslocare e a stabilirti nel Paese successivo».
L’ultimo paese da visitare durante la vita è la vecchiaia «un territorio selvaggio, da sempre. C’è poco turismo, si preferisce villeggiare altrove».
Già… la vecchiaia il periodo della vita che pur essendo territorio selvaggio è quello che quando si arriva alla frutta «si configura come dessert. Te la servono a fine pasto. Ed è quasi sempre qualcosa di dolce».
Dolce sì ma poco accettata fin dalla giovinezza «Ho incominciato molto presto ad avere paura del trascorrere delle ore, dei giorni, delle settimane, avvertivo una forza tumultuosa, come un torrente in piena, che minacciava la mia incolumità, insieme a quella degli altri mortali».
Ci sono molte contraddizioni in questo libro di Lidia Ravera, c’è la paura di invecchiare e il dovere accettarla a qualsiasi condizione, perché «senti anche crescere l’adrenalina, la sfida, l’eccitazione del compimento».
Alcune pagine sono anche dedicate alla vita in genere che viene definita come «uno spazio luminoso tra due zone oscure, quella anteriore e quella posteriore, come inerti, indifferenziate, una sorta di frontiera del niente» e alla morte che è «sempre un’ospite di riguardo. Ci fa abbassare la voce» e riserva clemenza per chi ha appena lasciato la vita.
I defunti sono sempre ricordati come aperti, ridenti. generosi, geniali, spiritosi e onesti. La vecchiaia è trattata con rispetto «soltanto quando arriva al termine».
Ma a un certo punto andando avanti nella lettura mi sono chiesta che cosa volesse dire realmente la Ravera con questo libro.
Credo, ma è una mia opinione opinabile che volesse esorcizzare il passare del tempo anche con le parole di Simone de Beauvoir «la vita conserva un valore finché si dà valore a quella degli altri, attraverso l’amore, l’amicizia, l’indignazione, la compassione», finché si riesce a «mantenere viva una sensibilità per «gli altri» abbastanza robusta, e abbastanza «militante» da impedirci il ripiegamento su noi stessi».
I giovani, anche se non lo sanno, non possono fare a meno dei vecchi perché è come se la loro distanza dagli avvenimenti desse loro uno sguardo obiettivo, come quando essere abbastanza lontani da un quadro permette di vederlo davvero: luci, ombre, dettagli, prospettive. Fuori dal quadro, ma contemporaneamente dentro il quadro stesso. fuori perché i vecchi oggi hanno vissuto a lungo e attraversato epoche diverse, dentro perché stanno ancora vivendo, sono ancora vivi!
Poi l’ultimo paragrafo che mi trova perfettamente d’accordo «vivere, quando il tempo davanti a te diventa breve, accende una curiosità incontenibile».
Una curiosità che, si sa, non potrà essere soddisfatta in tutto, ma che continua a essere motore di vita.