
Davanti al dolore, sentiamo una duplice necessità: raccontare o tacere. Raccontare la propria tragedia, significa farla esistere nella mente di un’altra persona con l’illusione di essere capiti, accettati nonostante la ferita. Significa anche trasformare il proprio trauma in una confidenza che assume quindi un valore relazionale: “Sei l’unica persona cui l’ho detto”. Una volta condiviso, il trauma subisce una trasformazione emozionale, una metamorfosi. L’illusione della comprensione è determinata da una terza persona, soprattutto se lontana.(…) Sappiamo che le persone con le quali condividiamo la quotidianità possono sbagliare, hanno troppi dispiaceri e hanno troppe imperfezioni per poter aprire loro il nostro cuore…. Anche il lettore ideale rappresenta una terza persona perfetta perché è lontano, quindi non potrà divulgare i nostri segreti e perché viene idealizzato, quindi sarà capace di capirci perfettamente.
Dopo l’angoscia della confessione, orale o scritta, le persone ferite provano spesso una straordinaria serenità: “Ecco, questo sono io. Sono così, prendere o lasciare”. L’identità dell’autore autobiografico suscita un improvviso sentimento di coerenza e accettazione. “Mi sono presentato così come sono: chi mi amerà d’ora in poi, mi amerà per quello che sono con ciò che ha contribuito a creare la mia identità…prima del mio racconto mi facevo amare per la mia parte socialmente accettabile e lasciavo nell’ombra un altro frammento di me stesso. Con il racconto mi sono presentato facendomi amare per quello che sono, in modo autentico e totale”.
(da IL DOLORE MERAVIGLIOSO di Boris Cyrulnik, Frassinelli ed.,1999, pag.115)
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