
Raccontare la storia che ogni esistenza si lascia dietro è forse il gesto più antico di cura. Non necessariamente una storia immortale, ma una storia che si può sentire negli angoli delle cucine, davanti a un caffè, oppure su un treno… Nelle cucine, sui treni, nei corridoi delle scuole e degli ospedali, davanti a una pizza o a un bicchiere sono sintomaticamente soprattutto donne a raccontare storie di vita. Come dice Francoise Collin, ‘la comunicazione fra donne si nutre del confronto di racconti di vita piuttosto che dell’urto delle idee’. Da sempre, l’attitudine per il particolare fa di esse delle narratrici eccellenti. Ricacciate, come Penelope, nelle stanze dei telai, sin dai tempi antichi esse hanno intessuto trame per le fila del racconto. Hanno appunto intessuto storie, lasciandosi così incautamente strappare la metafora del ‘textum’ dai letterati di professione. Antica o moderna, la loro arte si ispira a una saggia ripugnanza per l’astratto universale e consegue a una pratica quotidiana dove il racconto è esistenza, relazione e attenzione.
Adriana Cavarero – Tu che mi guardi, tu che mi racconti
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